18 dicembre 2015

Il grande Gatsby (Francis Scott Fitzgerald)

Eccoci, siamo alla mitica New York e nei suoi dintorni, anni venti del Novecento. 


Una generazione jazz, che si è caricata sulle spalle in parte, non senza qualche polemica, la risoluzione della prima guerra mondiale, si affaccia sulla ribalta della vita di una nazione che cresce a dismisura in un ordine caotico, in un disordine ammaliante: gli Stati Uniti. La terra promessa, dove tutto è possibile e l'impossibile è messo al bando. 


Il whisky è benzina per mettere in moto vite effimere, ardenti bramosie materiali, amori e tradimenti di ogni ordine e grado. 


Un' umanità forte e fiera nelle proprie imperversanti pazzie, un upper class che appare devastata e posseduta dal benessere ed alla ricerca di riempire i propri vuoti esistenziali ballando ora agilmente ora rozzamente nell'ipocrisia permanente di vestirsi ora in rigidi costumi moralisti ora in sgargianti lingerie libertine.




Nick, proveniente della provincia del West, guarda a volte impassibile a volte in preda a solida meraviglia quell'enorme palcoscenico che sembra promettere e non mantenere, questo mondo paludoso e paludato, placido e mellifluo dove ad ogni sguardo, ad ogni festa sembra aprirsi l'universo della scalata sociale ed economica. 

Nick abita vicino a Gatsby, coetaneo milionario, uomo discusso ed ammirato, lusingato, misterioso e misterico. Nel frattempo bazzica anche la cugina Daisy, bella come il sole, fragile come il vento quando sbatte contro un muro e cozza contro la granitica e indistruttibile rozzezza del marito, Tom, ex giocatore di football e dalla sensibilità pari a quella d'un bradipo in letargo, ora imperterrito e facoltoso donnaiolo che però tiene al focolare domestico esattamente come ognuno di noi tiene al pasto serale dopo una giornata di stenti e stentorei sacrifici. Tipico esempio di fedele tradimento alla maschile. 
Quattro personaggi monumentali, con l'occasionale ma importante presenza alterna e altalenante della sportiva miss Baker, bella e turgidamente saggia con il suo fare brillante e prezioso ma che tende sempre a sciogliersi come fa il più bel gelato nelle torride giornate estive, donna sempre dimidiata e preda alternativamente dell'avere e del pensare di dover avere. In un mondo dove i dialoghi e le azioni spesso si contrastano oppure si annodano fino a strozzare le possibilità e la volontà di determinarsi dentro le fauci dell'inevitabile o del casuale. 
Protagonista è la voce narrante di questo Nick cuore freddo ma tenero e passionale, che si districa non sempre magistralmente tra il disincanto che gli proviene dalla prossima matura soglia dei trent'anni d'età e lo stupore inneffabile che coglie chiunque si trovi catapultato da una modesta, pacifica e soporifera dimensione esistenziale di provincia in un mare ora agitato e tempestoso, in balia di venti e correnti, piogge e temporali quale è la jet set society di quella New York che
Fitzgerald, l'autore di questo capolavoro, conosceva bene e che in tanti, negli anni successivi ci hanno dipinto ugualmente, maliarda, matrona, tronfia, ricca e arroccata su suoi privilegi sorti con una nazione americana nata dal nulla e diventata tutto e anche oltre il tutto. 

I suoi contraltari, anche loro preda del loro anelito interiore a più puri desideri, a più felici congiunzioni umane, finiscono per annegare nelle loro misere appartenenze ad agiatezze materiali, vittime e carnefici di quella aspirazione a cercare una verità dove il non vero galoppa e trionfa senza remora alcuna. 

Chi vincerà nella lotta per dominare l'effimero territorio fra Tom e Gatsby? Daisy recupererà una almeno parziale lucidità di sentimenti? Nick saprà rimanere in piedi in questo terremoto di sensazioni e fibrillazioni che lo circondano? 

La bellezza e fulgidità della storia sta nel non incespicare mai nelle balbuzie dell'indulgenza o nei romanticismi dell'amore stile romanzo rosa, anzi, dardeggia senza sosta strali di lucido cinismo, spietato ardore nell'affrontare i caduchi voltafaccia reciproci della coppia in crisi Tom-Daisy con nell'ombra la figura ora ieratica e misteriosa ora puerile e frignante di questo Gatsby apparente mantide e cicala, ma spesso tacchino ripieno da cuocere al forno nei giorni del Ringraziamento  che l'America celebra a novembre. 

Stile imperfetto, ma inimitabile, poche pause ma con qualche flirtata jazz e sperimentalismi ante litteram, uso calibrato del linguaggio che spesso però si fa vibrante e surreale grazie ad improvvise virate espressioniste, che fuoriescono da ardite metafore, accattivanti paragoni, un uso quasi rituale dei colori della luce e dei riflessi del cielo per maestosamente affrescare tutto ciò che fa trama, sentimento, narrazione. 

L'autore Francis Scott Fitzgerald, (1896-1940), leggenda mondana del mondo artistico negli anni venti, uomo con vita spericolata, sempre al limite, in balia dell'alcool e di una moglie bellissima quanto malata, è stato icona, maestro e mentore della narrativa americana (Hemingway, Faulkner...) prima e di quella mondiale poi, sia per la figura bella e dannata, sia appunto per questo romanzo esile, con meno di duecento pagine, che appartiene a quella schiera di opere di rango che hanno segnato non solo un'epoca, ma intere generazioni di scrittori. 

Per fare un esempio tangibile ed a noi vicino, Andrea De Carlo deve molto a questo testo, dato che il suo famoso esordio "Treno di panna" (1981) è una rielaborazione neanche tanto nascosta in chiave post moderna, del Grande Gatsby.

16 dicembre 2015

Città della pianura (Cormac McCarthy)

L'amore, credo si sappia, muove anche le più nascoste forze ed anima anche i cervelli più intorpiditi e la chimica, la fisica e la logicità di tale portentosa forza a tutt'oggi non è stata ancora computerizzata né messa su carta in forma matematica. Nel senso che nessuno mette in dubbio che esista, ma razionalizzarla risulta compito improbo a scienziati e quant'altro. 
Ma questo romanzo temo ha l'amore come sinuosa esca, oppure adescamento, perché il risultato finale stavolta, in un eventuale riassunto, denota temi di altra portata e portamento. 

06 dicembre 2015

Furore (John Steinbeck)

Stati Uniti, anni Trenta. Gli effetti della grande depressione del 1929 infestano e spadroneggiano gli umori, i desideri, gli odi e le paure del paese. Il sogno americano già allora così fervido e vivo soprattutto nel resto nel mondo che non poteva conoscere la verità e le conseguenze di ciò, disconosceva che l’altra parte del sogno è sempre un incubo. SI comincia a mostrare qualche incrinatura tipica del sistema capitalistico, insita e congenita. Senza che questo voglia dire per forza che diversi sistemi di architettura economico- sociale che da decenni prima annunciano il prossimo Giudizio Universale siano in condizioni migliori o prefigurino un futuro ben più sapido. Il romanzo non decreta che l’impero stelle e strisce, ancora agli albori, sia destinato al crollo finale ed imperituro, come la parte avversa auspica e sancisce. “Semplicemente”, sostiene che un sistema è strutturato con cicli e ricicli. Si prende atto che non esiste infallibilità e coloro che ne fanno le spese, sicuramente, sono vittime sacrificali sull’altare del progresso modernamente inteso. Così s’ha da fare, chioserei, ove questo sia il meglio o il meno peggio. Ai posteri ardue sentenze. A ciascuno il proprio terrestre destino.

04 dicembre 2015

Dora Bruder (Patrick Modiano)

Dora Bruder scappa di casa in un freddo inverno del 1941, tetro e lugubre per la Parigi occupata dai nazisti. È una ragazza, ancora minorenne ma probabilmente l’aria del convento non fa per lei. A quanto si suppone aveva un carattere ribelle. I genitori sono ebrei, immigrati in Francia. Il padre, in passato arruolatosi nella legione straniera, all’epoca risulta dagli archivi invalido al 10o% e senza lavoro, come la madre. Non sono mesi facili, né per loro, né per tutti. L’occupazione tedesca sta stremando le forze, le violenze e i soprusi mediante circolari amministrative sono in aumento. Ad aprile Dora viene ritrovata per poi sparire di nuovo ed alfine essere bloccata e dirottata nei famigerati campi di raccolta della capitale francese, dove si ricongiungerà al padre, per essere deportata con un treno che purtroppo non ha nulla di festoso ed iniziatico, ma è tetro e minaccioso e si ha come un sapore di nulla montandoci su, depredato dei pochi averi, a spintoni e calci.
 

27 novembre 2015

Canale Mussolini (Antonio Pennacchi)

Semplicemente un'opera immensa, quasi dalle sfumature bibliche: dal 1926, in nove anni furono impiegate ben 18.548.000 giornate-operaio, secondo Wikipedia. Di che parliamo? Della bonifica dell'agro pontino. Probabilmente una delle opere del recente passato di cui gli italiani tutti devono andare più fieri, anche se fu concepita e realizzata in tempi grami, dove c'era un regime e già si agitavano megalomani proclami per creare un impero che invece diverrà provincia, provincia del mondo, come è attualmente, ai nostri giorni. Allora, per inciso, come molti di voi sapranno, si era sotto la dittatura di Mussolini. E l' argomento principale del romanzo "Canale Mussolini", con toni talvolta epici che mai sfiorano il patetico, il melenso, il gossip o la mielosa e stucchevole retorica, è appunto una storia delle storie ordinariamente straordinarie di gente che quella avventura epocale la vissero, non solo come testimoni ma come protagonisti.

26 novembre 2015

Un uomo (Oriana Fallaci)

Succedono cose nel mondo, anche oggi. Son successe e chissà quante altre bisognerà vederne. E poi leggerle, subirle, magari infangare il buon umore ed avere un moto di rabbia, indignazione, dolore. E' la notte tra il 30 di aprile ed il 1º maggio 1976. Siamo a Glyfada, luogo natale nei dintorni di Atene, di Alexos Panagulis, martire e aspirante carnefice del regime totalitario instaurato dai militari in Grecia fra il 1967 ed il 1974. Egli rimane vittima di un incidente automobilistico alquanto surreale. Era un personaggio scomodo, fuori dagli schemi, condannato a morte per un attentato nel 1968 al presidente fantoccio della dittatura, Papadopulos, poi graziato e rinchiuso in carcere di isolamento, con un regime di detenzione durissimo, cui lui reagirà con ferma intransigenza e una certa dose di pazzia mista ad eroismo. Con la pseudo caduta della Giunta militare, sarà poi amnistiato e successivamente eletto deputato per un pugno di voti.

25 novembre 2015

Castelli di rabbia (Alessandro Baricco)




L'altro giorno non so perché ero alla stazione Termini, Roma, caput mundi secoli fa, la città delle città, si diceva una volta. Ma era una volta, ed ora è svoltata, né a destra né a sinistra ma verso un precipizio. Alla biglietteria, dopo una fila nervosa ed estenuante invece che il solito biglietto per il mio tragicomico e sferragliante regionale che ci mette anni per coprire metri, ho chiesto all'addetto un biglietto per Quinnipack. Ovviamente non era disponibile, perché quella città non esiste, anche nei nostri tempi, di alte velocità, Tav, trasporti veloci e comodi certe mete sono irraggiungibili esattamente come i vostri cellulari a volte sordi e ciechi, senza campo, voce, senza nulla.
Ho abbandonato sul momento l'idea di un viaggio così,non valeva la pena di. Ma mi sarebbe piaciuto, per un giorno, visitare questo luogo che non c'è, come a volte mi sarebbe stato gradito fare un salto a Macondo di cui mi parlò un certo sudamericano di qualità ineccepibile quale Gabriel Garcia Marquez. Perché, come forse avrete intuito in questa realtà a volte amara a volte solo incomprensibile, a mio parere solo la letteratura può regalare un cambio di prospettiva ed offrire una nuova geografia mentale e spirituale. Il potere della parola logora chi non ce l'ha.
Quinnipack è solo la capitale del regno fantastico e realistico, allo stesso tempo, che Alessandro Baricco, nell'ormai lontano, ahimé, 1991, costruì, anzi architettò, per dare spazio, ambiente e aria ad una serie di personaggi che erano ad un bilico, ossessionati da qualche meravigliosa e delirante, fatua ossessione ma convinti di poterla non solo desiderare, ma anche realizzare. 

24 novembre 2015

Lessico famigliare (Natalie Ginzburg)


Una Torino inizio secolo e poco oltre. Quell'aria vagamente crepuscolare di cui Gozzano ci narrò in false poesie che erano brillanti poemi in prosa.
Tutto torna o se preferiamo i giochi di parole, tutto Torino. E poi una narrativa delicata, deliziosa. Un libro soffuso, soffice. Scene di vita familiare, in una città di un altro secolo, agli inizi e durante la terribile e cancerogena esperienza del regime fascista. Ci si addentra, con passo lento ma non meditabondo nelle ordinarie e straordinarie vicende quotidiane della famiglia Levi, alta borghesia certo, ma non spocchiosa, anzi, una borghesia di vecchio stampo che forse oggi non esiste più almeno in Italia. Di cui tutto sommato si avverte un gran bisogno. Magari radical chic, ma illuminata e lungimirante, anti retorica, pragmatica, antifascista per DNA ma non con il dente avvelenato della mera ideologia.