Ecco,
lo so, ci verrebbe da dire, aggiungere, togliere, misurare. Perché questo è un
romanzo che induce all'azione, sia quel che sia. Parla di trentenni e non ai
ventenni. Strano,come no. Tre ragazzi. L'avventura. La voglia, l'arsura. Magari
anche la paura, perché il difficile è avere coraggio, come spesso mi dico e
racconto agli altri, ogni giorno è difficile, ogni anno racchiude tante
disperazioni, ma avvicinarsi ai trenta anni e superarli oggi non è un salto nel
buio ma forse di più, con la sicurezza che finalmente quel nulla che ti pesava
non è una sensazione, ma una reazione, azione, mozione. E soprattutto il farsi
un sacco di pippe mentali con la paghetta settimanale e senza malattie gravi
accertate può sfociare nella grafomania, ma non è arte. E' parodia, nulla, non
esplode.
Tanti sbagli, qualche correzione, qualche deragliamento, anzi spesso solo
deviazioni dai binari così arrugginiti della vita ordinaria che offre partenze
ed arrivi, qualche stazione, nessun passaggio a livello dove soffermare le proprie
ansiose corse anche se alla fine, con rammarico, poi, magari a bordo, sui
vagoni, non sale nessuna emozione. L'isola che non c'è, ma che vorrebbe
esserci, trovarsi, ritrovarsi, slanciarsi nel futuro. Tre giovani, sbandati
quanto basta, dal passato quanto mai movimentato e quantomeno velleitario, dal
presente incerto ma dalle fondamenta benestante, anche se denso di malattie, ma
essenzialmente povero di vita vissuta come Moccia comanda, avido di movida,
sguardo non terso e dal futuro che si allontana ogni giorno, dove vivono
svendono e si maledicono le proprie esistenze tra espedienti e quasi
ripensamenti, slanci e rilanci, cadute che non toccano mai il fondo. Niente
Keruac o Bukowski però, anche se gli Usa (mediati dalla Londra multietnica e
sfruttatrice di fine anni Novanta) echeggiano e sono nell'ombra, come la
marmellata da rubare dentro la credenza mentre mamma fa la guardia ma i bimbi
prima o poi la sorprenderanno con un colpo imprevisto.
L'isola che vorrebbe ma non può o forse non vuole fino in fondo. Il quarto
romanzo di Soriga, narratore sardo del 1975 che vive a Roma, oltre ad essere
una convincente narrazione sulla contemporaneità è prima di tutto l'espressione
dell'odio amore che un sardo, appunto, può o meno nutrire verso la propria terra.
La terra è la nostra nascita e , come si sa, la nostra destinazione. Abbiamo
tutti un tipo di rapporto con essa, che sia di odio, amore, benevolenza,
accondiscendenza, indifferenza. La ricchezza fa la differenza, l'agiatezza
colora gli sguardi, direi. Il sesso senza amore è corollario, la fisicità sotto
effetto acido o alcolico fa addormentare anche gli spiriti inquieti.
Come tutte le regioni e se permettete anche di più, la Sardegna è pregna e si
indegna come più di una terra sui generis, appartata quanto colonizzata, fiera
quanto prostituta, non commercializzabile quanto venduta, isola appunto,
slegata dal tutto ed a tutto connessa, anche se solo grazie alla nascita di
Tiscali e di Internet. Lavoro di telefonista call center annesso.
Nel romanzo borghese c'è rabbia, insofferenza, ma più che blues abbiamo un
ritmo sincopato e dai vagheggiamenti jazz, ora assoli solipsistici ora rientri
dialoganti e corali, stacchi e riprese, sull'onda dei discorsi o dei ricordi,
il tutto con un suo incedere più che lirico musicale, più che dirompente
avvolgente.
E' una storia triste, per certi versi marcia e sconclusionata,di gente che
parla in prima persona con malattie non certo assolvibili dalla mutua,
economicamente e fisicamente parlando, una storia che gronda vero, lacrime,
speranze, illusioni e disillusioni ma soprattutto malinconitudine. Amori che
vanno anche se sessualmente vengono, rapporti che sì fulminano ma non piovono,
che più che incendiare vanno a spegnere, amicizie che si dilatano ma alla fine
si strappano, come se semplicemente muoiono, anche se poi, alla fine qualcosa
resiste.
Stati instabili e stabilità dettate da socio-politiche condizioni assimilate o
in assimilazione. Sesso tout court, ma che sembra più che liberazione
scappatoia, più che goduria una sorta di droga di infimo ma quantomai osceno
benessere, evasione. Eiaculare vuol dire evadere, venire vuol dire andare,
Soriga scrive brevi parafrasi senza indulgere al morboso ed all'osceno, ma la
sensazione è che la dissoluzione e la dimenticanza, l'inettudine e il
dissolvimento siano il come e il perché di stare qui, per ora ed in questo
romanzo in Sardegna, ma magari Cuba, Santo Domingo, Gallipoli o Suburbia Sud,
il posto non fa il signore, la geografia non redime l'uomo.
Ne ho letti tanti, non molti, da venti anni a questa parte, di testi che
vangavano le nostre eventualmente desolate terre ed i nostri sogni assiderati o
comunque incapaci a scongelarsi, tutti che scavavano i propri dolorosi ricordi
di malattia o assenteismo, sdoganavano false convenienze o facili ed assolute
omologazioni. Ma il sentimento comune che turba e perturba, al di là degli
stili, delle epoche, dei proprio vissuto, è questa incapacità e nello stesso
tempo questa assoluta e testarda, cocciuta ottusagine minimal chic, ho cibo qui
ma fame altrove, questa sconclusione, ben sapendo che porti non ardere ad un
fuoco, a scoccare una scintilla, ma semplicemente a coniare ed immolare,
immortalare il nulla, insomma. Niente nichilismo peraltro. Non si vuole la
morte, semplicemente la vita non si accetta, così come viene, così com'è è
fatta, così come ce la vogliono fare vivere. Assolutamente testo non
reazionario o qualunquista, dedicato a chi è nato a prima del Novanta ma poi
vediamo, che per l'ennesima volta ci lancia domande e noi rimaniamo punti
interrogativi, le risposte, se le volete, sono sul primo canale digitale o sul
satellite quotidiano nazionale così differenziato nella domanda, così facile
nelle risposte, così triste nelle conseguenze. Questo non è un romanzo che dà
le risposte che magari cercate, non sarà mai il più venduto anche se è letto,
questo è il contrario di quanto, volenti o nolenti, voi maggioranza,asserite,
cioè tutto va bene, lasciateci lavorare. E' un narrato. Con un Soriga forse ancora un poco acerbo rispetto a Il cuore dei briganti.
C'è una vecchia bipartizione, che credo sia di Moravia e non solo, che in
Letteratura c'è chi scrive e c'è chi narra ma non esiste un assoluta preferenza
o valore. Soriga mi pare che cerchi, con qualche indubbio spunto di talento, di
mediare le due strade ed incamminarsi verso un viatico comune. Sia quel che sia,
da leggere.
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