25 luglio 2015

Due di due (Andrea De Carlo)

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E' abbastanza plausibile, come canta il buon Guccini in un suo intramontabile pezzo (Eskimo), 
 che a venti anni (e poco prima) il mondo sia tutto intero e si è stupidi per davvero. Un concetto che tutto sommato ho imparato coll'eterno scorrere della lancetta, poi. E se il cantante emiliano rappresenta con quella calda, soffusa, lirica "Eskimo" il sessantotto dei ragazzi rivisti da un adulto nostalgico dell'età e non delle lotte, ebbene la canzone é colonna sonora ideale, sound track perfetto per questo testo diviso in due parti dal diverso ritmo e contesto, quasi due romanzi separati che poi ne costituiscono uno.
Due. Amici, fratelli, a volte quasi rivali.
Due strade, due vite.
Due. Numero imperfetto, a volte. Due percorsi, due orizzonti e due confini. Due di ogni traversata, di ogni passaggio. Mi ci ritrovo anche io, in questo liceo dove c'é lo start del testo, anche se i miei non erano gli anni settanta ma solo quegli anni ottanta così ovattati e tutti pieni di benessere e scarsezza di ideali, se non figa, jeans 501, ketchup e paninozzi, anzi paninari.
Ma i professori li vedevamo alla stessa maniera ed i primi amori nascevano  propri con quegli sguardi, con quelle parole a volte non dette, con quegli sgarbi e con quelle vibranti tensioni a volte solo immaginate, sempre con la musica in sottofondo. E nella classe nascevano amicizie inseparabili, coppie di puberali adolescenti. Qui ne abbiamo uno bello e maledetto, l'altro introverso e riflessivo. Guido Laremi e Mario sono due come noi, due come tanti, due di quelle individualità che sommate tutte assieme fanno la storia. E questa è una bella storia.
Il racconto del percorso dei due si concentra nella fase decisiva dell'adolescenza in una Milano opaca e grigia, più o meno anni settanta e poi riprende più avanti, nella seconda parte, quando le scelte si impongono, i lacci si stringono, le pulsazioni aspirano alla regolarità, al compimento, come se ad un filo percorso da corrente elettrica prima o poi bisogna attaccare una spina per accendere una luce e illuminare la stanza dei ricordi.
Così Guido e Mario si separeranno sempre di più, pur tenendosi sempre vicini e le due strade porteranno alla destinazione prefissata, saremo condotti sulle vie intraprese dai due, stancamente e senza nerbo, per vedere dove arriva chi    cerca una vita alternativa ma un amore instabile e chi nel suo geniale desiderio di stravolgere il mondo alla fine trova solo lo sconvolgimento della sua anima inquieta quasi irrimediabilmente destinata ad immolarsi all'irrequietezza. La penna di De Carlo mai è tornata così ispirata. Qui, con ritmo e maestria, abbiamo una scrittura non solo meticolosa e precisa come al solito per riportare su pagina l'intera superficie delle cose e delle emozioni, come se essa fosse un atto meccanico di fotografia, ma stavolta il lucido impenetrabile stile decarliano nasconde un fuoco ancora vivo, forse quello della memoria, quello delle cose che non tornano più. E, a dimostrare la perfezione di questo assioma su riportato, la seconda parte dove all'epoca scolastica si sostituisce una cosmologia esistenziale più varia e frammentata e alle magistrali ansie da prestazione giovanili si sostituiscono i magmatici e pacati tormenti della cosiddetta età adulta, tra scazzi di vario genere e natura e bollette da pagare, qui De Carlo si perde, forse per la volontà di mostrare una disgregazione interiore attraverso una improbabile comune in Umbria o avventurose locations esotiche.La esasperante lentezza in cui i fili tessuti nella prima parte arrivano a dipanarsi nello scontato e moralistico finale inficia e depaupera alcune tra le più belle pagine del romanzo italiano semi contemporaneo, lucide, quasi perfette, senza trasalimenti isterici o schizofrenici, asciutte e vive, una rievocazione di anni importanti della nostra società senza fastidiosi o debordanti lirismi o partigianerie di letteratura militante. All'inizio vien da gridare, se gridare è consono alla lettura, al capolavoro, urlo preso e tirato via da questi Guido e Mario così netti ed italiani, ma convincenti e due di noi. Poi la fine non giustifica i mezzi. E allora mi bevo un drink, accendo una sigaretta, assaporo la delusione coccolando il gatto in vena di fusa.
Andrea De Carlo, milanese, benestante, filoamericano in ogni sua goccia di sudore e sangue, promettente enfant prodige all'inizio degli anni ottanta con Treno di panna, ha via via negli anni dilapidato le possenti e pesanti aspettative date dalla pubblica stima di Italo Calvino mica male, direi. 
Una capacità scrittoria molto americana e affatto scontata, persa in una sterilità creativa .
Ha sempre però bivaccato nelle ombre del vorrei ma non posso o forse non riesco, belle storie tradite dall'incapacità di romanzare, scritti perfetti che però erano solo un elegante plastificazione di un anelito interiore fiacco o    forse debole.
Ciononostante, e risulta evidente come questo confermi la debolezza dell'intero movimento letterario nostrano, questo testo lunghetto ma scorrevole, rimane nella sua prima parte quanto di più forte e spietato, lirico e veemente che il ricordo dei mitici anni settanta ci hanno lasciato su carta almeno per ciò che attiene alle mie letture. E qui di questo si parla.

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