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Due.
Amici, fratelli, a volte quasi rivali.
Due
strade, due vite.
Due.
Numero imperfetto, a volte. Due percorsi, due orizzonti e due confini. Due di
ogni traversata, di ogni passaggio.
Mi
ci ritrovo anche io, in questo liceo dove c'é lo start del testo, anche se i
miei non erano gli anni settanta ma solo quegli anni ottanta così ovattati e
tutti pieni di benessere e scarsezza di ideali, se non figa, jeans 501, ketchup e paninozzi, anzi paninari.
Ma
i professori li vedevamo alla stessa maniera ed i primi amori nascevano propri con quegli sguardi, con quelle parole a volte non dette, con
quegli sgarbi e con quelle vibranti tensioni a volte solo immaginate, sempre
con la musica in sottofondo. E
nella classe nascevano amicizie inseparabili, coppie di puberali adolescenti. Qui
ne abbiamo uno bello e maledetto, l'altro introverso e riflessivo. Guido
Laremi e Mario sono due come noi, due come tanti, due di quelle individualità
che sommate tutte assieme fanno la storia. E questa è una bella storia.
Il
racconto del percorso dei due si concentra nella fase decisiva dell'adolescenza
in una Milano opaca e grigia, più o meno anni settanta e poi riprende più
avanti, nella seconda parte, quando le scelte si impongono, i lacci si
stringono, le pulsazioni aspirano alla regolarità, al compimento, come se ad un
filo percorso da corrente elettrica prima o poi bisogna attaccare una spina per
accendere una luce e illuminare la stanza dei ricordi.
Così
Guido e Mario si separeranno sempre di più, pur tenendosi sempre vicini e le
due strade porteranno alla destinazione prefissata, saremo condotti sulle vie
intraprese dai due, stancamente e senza nerbo, per vedere dove arriva chi
cerca una vita alternativa ma un amore instabile e chi nel suo geniale
desiderio di stravolgere il mondo alla fine trova solo lo sconvolgimento della
sua anima inquieta quasi irrimediabilmente destinata ad immolarsi
all'irrequietezza. La
penna di De Carlo mai è tornata così ispirata. Qui, con ritmo e maestria,
abbiamo una scrittura non solo meticolosa e precisa come al solito per
riportare su pagina l'intera superficie delle cose e delle emozioni, come se
essa fosse un atto meccanico di fotografia, ma stavolta il lucido impenetrabile
stile decarliano nasconde un fuoco ancora vivo, forse quello della memoria,
quello delle cose che non tornano più.
E,
a dimostrare la perfezione di questo assioma su riportato, la seconda parte
dove all'epoca scolastica si sostituisce una cosmologia esistenziale più varia
e frammentata e alle magistrali ansie da prestazione giovanili si sostituiscono
i magmatici e pacati tormenti della cosiddetta età adulta, tra scazzi di vario
genere e natura e bollette da pagare, qui De Carlo si perde, forse per la
volontà di mostrare una disgregazione interiore attraverso una improbabile
comune in Umbria o avventurose locations esotiche.La
esasperante lentezza in cui i fili tessuti nella prima parte arrivano a
dipanarsi nello scontato e moralistico finale inficia e depaupera alcune tra le
più belle pagine del romanzo italiano semi contemporaneo, lucide, quasi
perfette, senza trasalimenti isterici o schizofrenici, asciutte e vive, una
rievocazione di anni importanti della nostra società senza fastidiosi o debordanti lirismi
o partigianerie di letteratura militante. All'inizio
vien da gridare, se gridare è consono alla lettura, al capolavoro, urlo preso e
tirato via da questi Guido e Mario così netti ed italiani, ma convincenti e due
di noi. Poi la fine non giustifica i mezzi. E allora mi bevo un drink,
accendo una sigaretta, assaporo la delusione coccolando il gatto in vena di
fusa.
Andrea
De Carlo, milanese, benestante, filoamericano in ogni sua goccia di sudore e
sangue, promettente enfant prodige all'inizio degli anni ottanta con Treno
di panna, ha via via negli anni dilapidato le possenti e pesanti
aspettative date dalla pubblica stima di Italo Calvino, mica male, direi.
Una capacità scrittoria molto americana e affatto scontata, persa in una sterilità creativa
.
Ha
sempre però bivaccato nelle ombre del vorrei ma non posso o forse non riesco,
belle storie tradite dall'incapacità di romanzare, scritti perfetti che però
erano solo un elegante plastificazione di un anelito interiore fiacco o
forse debole.
Ciononostante,
e risulta evidente come questo confermi la debolezza dell'intero movimento
letterario nostrano, questo testo lunghetto ma scorrevole, rimane nella sua
prima parte quanto di più forte e spietato, lirico e veemente che il ricordo
dei mitici anni settanta ci hanno lasciato su carta almeno per ciò che attiene alle mie letture. E qui di questo si parla.
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