Un romanzo? Forse. Un saggio? Anche. C'era una volta un
paese. Chiamato Italia e messo su, più o meno con la forza da una sola regione,
il Piemonte. C'era poi una volta la Toscana. Questa era un'altra regione, che
alcuni definiscono rossa, ma per milioni di persone è solo bella, ricca,
affascinante. Dentro la regione c'era una città. Si chiamava Prato. E da qui
nasce una storia. Triste, molto. La lettura è vietata ai minori, ai
politicamente scorretti oppure orientati.
Edoardo Nesi è scrittore
e giornalista, pratese del 1954, mette giù una storia come tante che riguarda la
sua città, le sue convinzioni. Lo fa fa in maniera veloce e tutto sommato fatta
bene, lo fa dopo che è successo tutto, dice quello che insomma si sapeva o si
stava sapendo.
A Prato i toscani o chi
per loro hanno sventolato bandiera bianca. il centro italiano per eccellenza
dell'industria tessile oramai boccheggia, anzi, rantola. Sono arrivati i
cinesi, l'artigianato, il manifatturato artigianale non c'è più. I cinesi sono
tanti, irregolari, a basso costo e producono. È rabbia, sfogo, aria che si
muove questo libro di Nesi. Nulla di nuovo sul fronte occidentale. Una
esperienza dal vivo, di un fallimento. Un proprietario che cede, perché non ce
la fa più. Senza mai denunciare l'avversario che proviene dal profondo est, ma
dando la colpa ai tempi, allo Stato, a piove-governo-ladro. Il governo è anche
opposizione, se l'autore non si è opposto, era al governo.Però niente
preoccupazioni. Con tanti piagnistei, recriminazioni, ricordi dell'Italia anni
Cinquanta che grazie a Dio è andata avanti, magari restando fuori dal
ventunesimo secolo ma non impantanandosi nella preistoria. a metà novecento chi
aveva voglia di lavorare lavorò, guadagnò e fece fortuna. Poi, dopo mezzo
secolo le cose sono cambiate. Non basta essere amici di un assessore, avere
voglia. Serve capacità e soprattutto uno Stato che sia tale. All'imprenditore
resta poco. I soldi fatti e magari una decisione. Quella per cui quindi alla
fine con rancore, declamato onore e senza sudare, se la cava con una vendita
della fabbrica. Altri hanno perso il lavoro. Lui lo sa e non lo nasconde. Anzi
si arrabbia, piange, grida.Vaglielo a spiegare agli altri, ai dipendenti.
Globalizzazione non
fratellanza, anzi. È guerra, occupazione di spazi, accaparramento e
sfruttamento di risorse dovunque esse siano. E solo le strutture forti, stabili
possano resistere o comunque non crollare. L'Italia purtroppo è d'argilla,
politicamente ed economicamente. Cosicché tradizionali settori lavorativi,
fiore all'occhiello e nostro proprio vanto, piano piano scompaiono, assorbiti o
spazzati via da imprenditorie aggressive e facoltose, come quella cinese, ad
esempio.
E ci si soffre, quando magari non ci si rovina. Inutile urlare che si brucia
tutto. L'incendio covava sotto le cenere da anni. Qui c'era un sistema che non
funzionava anche quando le industri tessili di Prato andavano alla grande
oppure c'era il miracolo del Veneto-Friuli. Tutto in nero, tutto aleatorio.
Al di là dell'evidente faziosità dei contenuti, un libro che per chi non sa è
necessario. A metà fra romanzo e narrativa. Un amaro ma non logorroico
monologo, dove i tratti o i paragrafi sono misurati a scatti, tra l'anatema, il
sarcasmo e l'inevitabile considerazione che tutta cambia affinché nulla cambi
in meglio oramai.
Appunti, nostalgia, ridondanza. Scritto bene. Ma senza soluzioni. Anzi, molti
problemi. Non capisco come possa vincere un premio tradizionalmente riservato
alla narrativa, ma si sa, sono legato a vecchie categorie, vecchi modi che in
realtà sono più nuovi del nuovo.
Su ciao.it il 27.11.2012
Su ciao.it il 27.11.2012
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